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Dylan Dog con “Mater Dolorosa” celebra trent’anni di inquietudine

Dylan Dog con “Mater Dolorosa” celebra trent’anni di inquietudine

È in questi giorni in edicola il numero 361 di Dylan Dog, Mater Dolorosa, nel trentennale della prima uscita. Un albo a colori, a cura di Roberto Recchioni e Gigi Cavenago, che prende là dove Mater Morbi era arrivato e aggiunge nuovi tasselli alla storia tormentata dell’indagatore dell’incubo.

Dylan ha una ricaduta del male oscuro che l’ha quasi ucciso anni prima. Capisce allora che Mater Morbi, la madre della malattia, lo sta richiamando a sé. Una novantina di pagine a colori, realizzate con un tratto che non è soltanto un tratto, ma che viene trasfigurato dalle pennellate di Cavenago in maniera tale da far sembrare tutta la storia un’immensa cavalcata onirica dentro la parte più dolorosa e vera di Dylan Dog. Un gran lavoro di inquadrature, rimandi iconografici e una costruzione pittorica delle tavole che rende questo numero una vera chicca per i lettori.
L’ambientazione, tra la realtà e il sogno, riporta l’indagatore sul vascello del padre, dove vengono raccontati nuovi dettagli sulla sua genesi, lasciando intendere come Dylan Dog sia stato predestinato fin da bambino a doversi confrontare con il dolore nella sua forma più spaventosa e seducente.
Il nocciolo della storia infatti, senza scendere in spoiler grossolani, vede Dylan alle prese con Mater Morbi, che lo sceglie come predestinato per cavalcare il Dolore, inteso e declinato in tutte le sue implicazioni metafisiche ed emotive: il dolore come effetto collaterale della conoscenza, il dolore come fattore livellante di tutta l’umanità, il dolore come catarsi che rende indipendenti dalle altre persone. E proprio Dylan, conteso tra la madre Morgana e Mater Morbi, indicherà la via per servirsi del dolore nella vita, rimbalzando tra citazioni filosofiche e sottintesi che rimandano ai grandi padri del pensiero umanistico occidentale.
Un albo che dal punto di vista autoriale naviga su più livelli, e che conferma la gestione di Recchioni come una delle migliori cose potevano succedere a Dylan Dog dopo Sclavi, che l’ha costruito e reso iconico a partire proprio da quel settembre di trent’anni fa.

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Da “Mater Dolorosa”. © Sergio Bonelli Editore

Tornando appunto al 1986, in quell’anno successero parecchie cose e come sempre capita nel corso della Storia, solo dopo abbastanza tempo si riesce a mettere tutto assieme e delineare la portata di quegli eventi: escono opere fumettistiche fondamentali come Maus di Art Spiegelman, Watchmen di Alan Moore e Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller; scoppia la centrale di Chernobyl, passa sulle nostre teste la cometa di Halley, Berlusconi compra il Milan…
Tutto questo messo assieme non ha forse un senso interconnesso agli occhi di molti di noi, ma se il dossier “1986” arrivasse sulla scrivania del nostro indagatore preferito, probabilmente i risvolti che Dylan Dog scoprirebbe potrebbero essere di portata così spaventosa da generare terrore e caos nelle nostre menti di avidi lettori!

A parte gli scherzi, dico la verità: scrivere un pezzo sul mito di Dylan Dog, per un italiano, per me, è difficile.
Ci siamo dentro, al suo mondo: anche se ambientato in Oltremanica, ogni storia è intrisa come ho detto prima anche di rimandi allo spirito culturale, metafisico e finanche clinico del nostro paese. Questo non significa che Dylan Dog sia un fumetto provinciale o peggio nazionalpopolare, anzi. Le vette liriche a cui ci ha abituato (senza smettere di sorprenderci) in questi trent’anni lo fanno iscrivere a pieno diritto nel club dei fumetti che meritano l’appellativo di “opera letteraria”. Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo, riesce a tenere tramite il lavoro dei suoi autori un regime di marcia molto più alto della media e a confermarsi come un prodotto mainstream che non scivola nel “già visto” o nel banale. Nessuna concessione a frasi ad effetto da diario adolescenziale, né a sproloqui qualunquistici, per dire.
Per questo credo che Dylan Dog possa tranquillamente prendersi l’onere di far riflettere ogni generazione, di pungolare ogni mente curiosa; grazie al pensiero laterale e ai continui cambiamenti di prospettiva sulle nostre certezze, sulle nostre paure e sulle nostre debolezze, suggerisce come le risposte per capire la realtà possono venire soltanto se la realtà viene messa in dubbio, se le si dà un peso relativo e la si guarda da più angolature.

In trent’anni, infatti, Dylan Dog ha dato la cifra di cosa sia necessario fare per non cadere davvero nell’incubo: c’è da indagarlo quest’incubo, sviscerarlo e contemporaneamente trovare il modo di arginarlo per poi disinnescarlo: dall’omologazione alla malattia, dalla solitudine all’egocentrismo, ogni aspetto deviante della modernità viene tirato dentro le vignette dagli autori di Dylan Dog per poter scongiurare la minaccia di un pensiero unico che ci condanni a soccombere.

Certo, la funzione del fumetto è prima di tutto legata al divertimento e al piacere della fruizione “popolare”, ma questo non ci deve indurre in errore. Dylan Dog è appassionante (e questo numero 361 lo è, e molto), ma fornisce anche una preziosa occasione per riflettere su di noi, su quello che ci circonda, sugli incubi che noi stessi creiamo; come una sorta di campanello d’allarme che ci ricorda di continuo la complessità della vita.

Circa l'autore

Alberto Ceschin

Pubblicitario di professione e mille altre cose per passione, che se le scrivi una per una passi da quello che vuol far tutto lui. Diciamo che da sempre se la passa bene a scrivere, disegnare, recitare, dirigere e suonare. Ma anche così suona pretenzioso. Ok… Vediamo. Ah ecco. Si dedica all’espressione artistica con l’illusione di sopperire alla sua scarsa bellezza. Sì, questo è più o meno il succo della cosa.

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