
Logan: the Wolverine – recensione

Sotto il punto di vista della continuity, Logan: the Wolverine si pone qualche anno nel futuro, abbastanza per sovrapporsi al fumetto da cui prende spunto (la serie Vecchio Logan di Mark Millar e Steve McNiven) ma non troppo da staccarsi da un universo cinematografico che, in qualche modo, si è riuscito a mantenere coerente nella pletora di film ispirati ai personaggi di Stan Lee e Jack Kirby.
Un ultimo capitolo (anche se “ultimo”, nel cinema, è una parola praticamente svuotata di ogni significato) che vive indipendentemente dai film che lo hanno preceduto. Anzi, mettiamola così: che vive indipendentemente dalla storia (che, a ben guardare, è una storiellina esile esile), dai suoi personaggi (che, al netto di Jackman e Stewart può contare su un paio di scelte di casting azzeccate) e dalla sue ambizioni narrative.
Logan: the Wolverine vive tutto sul rapporto emotivo che è riuscito a costruire negli anni tra il personaggio di Jackman e il suo pubblico. Non il capolavoro che molti dicono, ma nemmeno la robetta sciapa che riusciva ad annoiare (nonostante non contenesse molto più che una serie di sequenze action più o meno ben coreografate) degli altri due film stand alone dedicati a Logan.
E, pur restando sostanzialmente un film sui mutanti, pur appartenendo al medesimo universo narrativo di cui sopra e pur mantenendone – anche se ben mascherata – la struttura, Logan: the Wolverine riesce ad essere un film di rottura sia rispetto alla saga degli X-Men targata Fox, sia rispetto a quei grossi telefilmoni con tanti soldi con cui i Marvel Studios stanno facendo da anni sfracelli al botteghino. E questo, va detto, non è poco.

Mai così sboccato e violento Wolverine come in questo film, il primo ad essere vietato ai minori: Jackman, però, si è ridotto il cachet per compensare i mancati introiti.
Logan, più che mai in questo film, è un personaggio a cui è facile volere bene (complice anche una convincente interpretazione di Hugh Jackman), è un uomo malato, tagliato fuori dal tempo che cerca in qualche maniera di fare la sua uscita da un mondo in cui non ha più alcun amico in vita e in cui il suo vecchio mentore è invecchiato e affetto da una malattia mentale degenerativa.
Patrick Stewart ha un personaggio magnifico. Triste. Divertente. Tragico. La sua interpretazione regala al professor Xavier un addio che meglio non si sarebbe potuto.
La ragazzina (la dodicenne Dafne Keen) è quasi senza battute ma la sua presenza scenica, quello strano sguardo che butta addosso ora a questo ora a quello e quella faccia da adulta in un corpo da bambina valgono più di mille monologhi.
I cattivi ci sono, ma probabilmente non ve li ricorderete neanche più una volta alzati dalla sedia (ed è un peccato perché Richard Grant ha una bella faccia).
Se amate il personaggio del canadese con gli artigli, adorerete questo film, e passerete sopra tutti i suoi difetti senza neanche accorgervene.
Altrimenti, aggiungerete solo un altro tassello a quello che si sta avviando a diventare uno degli affreschi cinematografici più ambiziosi mai portati sul grande schermo per il grande pubblico, e vi divertirete il giusto.
Ah, potete anche alzarvi una volta che iniziano i titoli di coda: nessuna scena post crediti. Questa faccenda dell’ultimo film su Wolverine, Mangold deve averla presa piuttosto sul serio.